Un paio di domeniche fa, qualcuno con cui parlavo ha nominato il libro "Uno, nessuno e centomila" di Luigi Pirandello.
Non starò qui a dire cosa ne veniva detto in quel contesto, parlerò soltanto dei luoghi visitati dalla mia mente e dal mio cuore dopo aver sentito quel titolo e ricordato quel libro, fino ad allora immeritatamente rilegato in un angolo dei ricordi.
Subito si sono aperte connessioni con i percorsi di counseling e di libroterapia umanistica, perché nel libro si tocca l'essenza di come percepiamo noi stessi e come veniamo intesi dagli altri.
Un dettaglio di noi rivelato dall'intuizione di chi ci guarda, può innescare un terremoto interiore svelando la frattura tra l'uno che crediamo di essere e i centomila modi in cui ci vedono gli altri.

Poi c'è la questione dell'essere "nessuno".
Un "essere nessuno" che significa accettare la vita come un flusso continuo, inarrestabile; accettare che è necessario lasciarsi andare, senza attaccarsi a schemi o definizioni, senza quella forza coercitiva che imprigiona l'individuo in ruoli e identità prefabbricate che si chiama giudizio.
La vertigine identitaria del protagonista è un'esperienza umana universale che spesso emerge nei percorsi di counseling: le maschere che indossiamo, le proiezioni altrui, i tentativi di aderire a un'immagine fissa; tutto questo crea sofferenza e disorientamento proprio come accade al protagonista del libro.
La sua ribellione, la sua lotta per distruggere le maschere, per liberarsi dalle prigioni delle definizioni esterne, è un percorso estremo, ma illuminante: ci spinge a interrogarci su quanto della nostra identità sia autentico e quanto invece sia costruito sullo sguardo degli altri.
Il romanzo diventa così una potente metafora del lavoro di counseling, un invito a esplorare le nostre diverse sfaccettature, a decostruire le false immagini che altri proiettano su di noi, a cercare un contatto più autentico con il proprio nucleo interiore senza la pretesa di fissarlo in una forma definitiva...
Perché come si scopre nel libro, la vita è movimento flusso continuo, un divenire che sfugge a ogni tentativo di etichettatura finale.
Il counseling ci ricorda che l'identità è fluida e relazionale, che la percezione è soggettiva e che la comprensione dell'altro passa attraverso il riconoscimento della sua unica e irripetibile esperienza del mondo e di noi.
È un invito alla curiosità, all'ascolto profondo e alla decostruzione delle etichette.
Il romanzo rivela come il giudizio esterno generi una moltitudine di "forme" e "maschere" che gli altri ci impongono; costruzioni sociali che danno vita e vitalità al nostro giudice interno.
E noi, come possiamo, di fronte alle innumerevoli 'forme' che ci vengono attribuite, coltivare la nostra autenticità e trovare libertà dal peso del giudizio?
Avete voglia di raccontarcelo?
Aggiungi commento
Commenti